Sono tra il sole, la terra e le Ande. Sono in Colombia.
Respiro la pace dei sensi, mentre parlo, gli uccelli cercano rifugio sui rami, cinguettando con suoni diversi, come i loro colori, come le loro ali.
Le nuvole, disegnano forme astratte, si mescolano sopra e sotto di me, sono così in alto da poter avere il cielo all’altezza degli occhi e del naso all’insù.
Mentre passaggio nell’orto tocco ogni pianta, ho sulle mani l’odore del basilico, del rosmarino, del limone, del timo. Guardo la lattuga, il porro, la barbabietola, il pomodoro, gli alberi, mentre prendono il sole e stanno dritti su una terra nera, piena di lombrichi e di insetti così piccoli da passare inosservati.
Chi mi parla dietro alla macchina fotografica impolverata, mi racconta della sua giornata, “non ho bisogno della sveglia, ci pensano gli uccelli ad alzarmi, preparo la colazione e vado nell’orto, amo vivere in campagna per la tranquillità, per l’aria pura e per poter stare con la mia famiglia”.
Questo è tutto, ed è un tutto davvero invidiabile, Angie. “Sono orgogliosa di essere una contadina, di lavorare la terra, di poter lavorare per dare da mangiare ad altre persone, di poter produrre senza fare male all’ambiente, senza usare quei veleni che le multinazionali ci hanno insegnato a spargere sulla terra”.
Angie ha 21 anni, è una donna, è una mamma, è una figlia, è una nipote. Mentre chiedo a sua nonna se è orgogliosa di lei vedo il sorriso che spunta sulla faccia di entrambe. Certo che lo è. Ha una nipote che è un seme di speranza, che semina speranza.
Quando torno a casa dopo essere stata con persone del genere, non posso non pensare di essere nel posto giusto. Da quando le mie orecchie sono abituate a questo genere di racconti, i miei occhi ai verdi andini, le mie mani alla terra e il mio naso agli odori della campagna, ringrazio le mie scelte, i miei passi.
Stamattina però mi sono svegliata nella tristezza di una notizia che sento nella pancia. Hanno ucciso 5 indigeni a Toribio, nella regione del Cauca, zona rossa-sangue del paese. Una autorità indigena di nome Cristina e quattro compagni della cosiddetta “guardia indigena”, non ci sono più.
Sono stati eliminati dalla terra, per la terra. Toribio è una delle ferite aperte più grandi della Colombia. E’ il riassunto di questa guerra ad armi non pari, di questa guerra di campagna, di questa guerra sporca.
Lì dove i Nasa, una delle popolazioni indigene più numerose del paese, ha le radici resistenti ben piantante nella terra, sono avvenuti i più efferati soprusi da parte di chi vuole fare della Colombia una miniera, da cui estrarre ricchezze legali e non.
Penso alla pace dell’orto di Angie e di come questa sia la Pace che vogliono gli abitanti delle campagne di questa meraviglia del Sud America e delle sue grandi e caotiche città. Svegliarsi con gli uccelli, con un lavoro degno, con il sole, o con la pioggia, ma con il sole dentro.
E invece, ogni giorno, nel silenzio, c’è chi uccide e chi piange, c’è chi riceve mazzette, c’è chi punta pistole, chi conta i soldi e chi non ne ha per comprare le scarpe nuove.
Tutto ruota intorno alla terra. Il disegno è liberarsi di chi abita le campagne, per poter seminare mono coltivazioni sterminate, da vendere sul mercato internazionale a prezzi stracciati, o piante legali che diventano prodotti illegali e alimentano le tasche di chi nell’ombra mette in ginocchio nazioni intere.
E chi quella terra la ama, la protegge, la difende, muore, muore con le piante, muore con gli uccelli, muore con i fiumi, con i mari, con la cultura, con la partecipazione, con la musica, con la libertà.
In questo paese ogni giorno muore la libertà. Perché ha un prezzo troppo alto l’interessarsi alla politica, il resistere, il cambiare le cose. Ne va della vita. Della cosa più preziosa che abbiamo da condividere, con chi ci ama, con chi ce l’ha regalata, con chi potremmo salvare, con chi ci ha salvato.
Io a Toribio ci ho camminato, per scelta, perché le mie gambe non ne potevano fare a meno. Perché le mie mani potessero scriverlo. Perché la mia testa fosse diversa.
E oggi, dopo aver letto chi erano le persone coinvolte nell’attentato, ho alzato il telefono e ho chiamato una della persone che mi ha fatto amare quel pezzetto di Colombia. E ho trattenuto il pianto, e gli ho detto che le ero vicina, che il mio numero era quello da cui chiamavo e che mi poteva chiamare quando voleva, perché voglio stare li, voglio essere vicina, perché già lontano non ci posso stare.
Si dice che più si ama più si sta male, ecco, io amo questo Paese, e mi fa male questo Paese. Sento nelle lacrime quelle persone scomparse, quella bellezza che si dissolve e si fa memoria.
Sono qui a usare le dita per dire come si sente sentire l’ingiustizia e l’orrore nel cuore. L’unico che ci rimane è raccontare, raccontare perché si sappia che c’è chi ogni giorno è parte di una guerra, di un dolore immenso. E invece di girarsi, guarda in faccia la libertà, la politica e la vita e la mette al servizio di tutti noi. Perché si. Vale la pena vivere liberi. Anche costasse la vita stessa.
Domani pianterò un seme e penserò a chi ne ha piantati così tanti da dare frutti, anche se non c’è più. Fuerza, fuerza.