Gente d’acqua – La comunità indigena Nasa

Gente d’acqua – La comunità indigena Nasa

In Colombia fa buio presto. Alle sei e mezza il sole decide di scappare, lasciandola, come gli altri paesi vicino alla linea dell’equatore, alle amiche stelle. 

In campagna, il buio corrisponde più o meno alla fine della giornata, si va a letto prestissimo e alle 5 ci si sveglia per stare dietro alle mucche, per zappare senza caldo, per raccogliere i frutti della terra, per mandare i bambini a scuola, per preparare la prima zuppa del giorno, il riso e le patate. 

Siamo alla nostra prima notte nelle campagne di Toribio, nella ragione del Cauca. Abbiamo negli occhi un viaggio che difficilmente dimenticheremo. Intorno a noi un gruppo di casette sparse sull’unica strada e la scuola che ci ospiterà nei prossimi tre giorni. 

Non siamo su una terra qualsiasi. Questa è terra Nasa, uno dei gruppi di indigeni più resistenti e numerosi del paese. Nasa, “Gente d’Acqua”. “Uma”, luna, nella lingua Nasa Yuwe, sta dritta su nel cielo ma non è l’unica luce presente. 

Giriamo le nostre teste tutto intorno, milioni di piccole lampadine illuminano le Ande circostanti , le stelle si occupano di farsi spazio tra le nuvole.Tutto sembra un presepe. Purtroppo però non è niente di magico: le infinite piantagioni di marijuana presenti hanno bisogno di luce anche durante la notte, per poter crescere ancora più in fretta. 

Eccola qui finalmente la Colombia di cui molti vogliono sentire parlare, quando ti strizzano l’occhio e dicono “Eh eh bella la Colombia eh?”, quando fanno con il dito e il naso il gesto dell’assunzione di cocaina, quando dicono “E Pablo come sta? Eddai… Escobar!”, “Plomo o plata!”, “Ci hai portato dei regalini??” 

Eccola, è qua davanti ai miei occhi, la vostra droga. Un territorio di fiumi, di verde, di saggezza, calpestato dall’illegalità, dalla paura, dai soldi facili. Un territorio millenario, popolato da anziani considerati delle autorità, da animali considerati sagge guide, da spiriti considerati consiglieri e ammonitori. 

Perché siamo qui? Perché in mezzo all’odore forte di marijuana, alla paura, ai fogli di minacce scritti da gruppi armati, al coprifuoco dopo le sei, in mezzo ai boschi, alle strade sterrate e alle montagne, è nato anni fa un piccolo miracolo. 

Il miracolo si fonda sull’arma più forte da usare contro questo mondo malaticcio: l’educazione. Una scuola, con sedie, banchi, lavagne ma anche con alberi, fiumi, piantagioni, animali, con una piscina, una mensa, un campo da calcio, da pallavolo, una sala per i balli, il teatro e la musica, delle professoresse e dei professori, dei custodi, delle cuoche e dei cuochi, degli agronomi, degli zootecnici, dei contadini, delle guide, spirituali e pratiche. 

Il CECIDIC, Centro Educativo d’Istruzione e Ricerca per lo Sviluppo Integrale della Comunità, nasce nel 1994 e accoglie al suo interno il Collegio “Eduardo Santos”, dove dalla materna alle superiori, centinaia di ragazze e ragazzi della zona studiano ogni anno. L’offerta formativa prevede anche una scuola di pedagogia, una di arte, una di comunicazione e grafica e una di agroecologia. 

Tutta l’educazione impartita è un’educazione “propria”, tiene cioè in conto non solo la lingua Nasa, il Nasa Yuwe, ma anche la visione indigena Nasa del mondo e dell’universo. Si iniziano e si chiudono gli anni scolastici con rituali, si guarda alla terra come casa e non come risorsa, si spinge a una produzione propria di alimenti, si recuperano le forme antiche d’arte, del tessere, della musica. 

E’ un andare avanti partendo dall’indietro, dal tanto indietro. Questa è la sensazione che mi dà il Cecidic, mentre ascolto parlare chi ci lavora e chi ci studia. Un bellissimo albero, con radici solide e una chioma folta di progetti, di storie, di esempi. 

Tra le coltivazioni presenti nella scuola c’è anche il caffè, che viene lavorato da esperti del settore, da professori e studenti, usato nella mensa e venduto all’azienda Nasa del Municipio: “Kwe’s Cafè”, “Il nostro caffè”. Le produzioni della scuola e di alcune famiglie della zona, vengono mescolate per dar vita al prodotto finale. 

Abbiamo la fortuna di andare a raccoglierlo con un gruppo di alunni, cerchiamo di fare domande da dietro le telecamere ma sono timidi e adolescenti, una combinazione difficile da smuovere. Mentre li guardo ridere tra le piante penso a se pensano di essere fortunati. Stanno imparando a usare le mani, a stare nella terra, a vedere i frutti di un lavoro difficile. 

Stanno imparando che un’alternativa esiste, che si possono produrre cose legali e sane, che forse si vive meno ricchi ma sicuramente più in pace, con sé stessi e con il mondo. Questo uno dei tanti punti di forza di questa scuola, non solo parlare di teorie ma mostrare pratiche, mostrare verità, mostrare vie d’uscita, vie di pace. 

Dopo una giornata di caffè, di interviste, di scoperte, torna la notte e tornano le lampadine, noi scivoliamo a casa di Doña Maria, che prepara le zuppe e i piatti vegetariani migliori di tutta la frazione. 

Un posto così stanca, un posto così ferisce, un posto così innamora, incuriosisce, forma. E’ in quel posto così che Chiara, la nostra amica-guida, ha messo le radici da qualche anno e sta vedendo crescere le fronde alte del suo lavoro con la cooperazione italiana e europea.  

E’ lei a portarci a spasso tra la notte, tra le zuppe, tra i gradini di pietra in cui ci sediamo a chiacchierare di noi, della Colombia, del lavoro “che poi non è solo un lavoro”, del mal di schiena, della mozzarella. E’ lei a insegnarci, come una Nasa adottata, come si beve il “Yu Beka”, una bevanda di succo di canna da zucchero fermentato.  

Siamo in piedi, guardando verso la notte, sentiamo il fiume scorrere sotto di noi, i cani abbaiare e qualcuno che passa non lontano, “si fanno tre giri con la bottiglia vicino alla gamba destra, poi vicino alla sinistra, poi si passa la bottiglia sulla testa e poi si versa un po’ di Yu Beka sul palmo della mano, schizzandola verso tre direzioni”, è così che si dà da bere anche agli spiriti. E’ così che si iniziano i rituali. 

Ha un gusto morbido, sa di buono, sa di sacro. Chiara ci ha regalato un bellissimo ricordo quella notte a Toribio, ci ha fatto andare a letto felici di essere su quella terra Nasa e di aver dato da bere a quegli spiriti così antichi. 

Interviste, piante, odore buono di caffè buono, sono passati due giorni e dobbiamo andare via. Cambiare costantemente strade, letti, climi è la cosa bella e brutta di questo viaggio. Abbiamo lasciato in ogni tappa sorrisi, abbracci, foto, magliette e ci siamo portate via l’energia bella e i video che comporranno il documentario “Yanayaku – Le radici del caffè”. 

Ci sono video che non abbiamo potuto fare, altri che non abbiamo voluto fare. Toribio è una di quelle tappe in cui volere e potere sono stati in contrasto, ha vinto la prudenza, hanno vinto gli occhi e le narici, che sono stati riempiti senza poter condividere. 

Per fortuna le parole aiutano a spiegare, aiutano a sedersi con noi su quella macchina non nostra, con quell’autista simpatico, che mette le musiche che ci piace cantare, che racconta del dolore e della gioia di vivere in un posto così. 

Aiutano a piegarsi con noi, per vedere il buco nella ruota di quella macchinona che sembrava infallibile, per vedere la polvere che alza ogni moto, per vedere il verde delle piante caricate in fretta. 

Le parole aiutano per sentire lungo tutto il tragitto fino alla città, l’odore di marijuana penetrante nelle narici, poi quello di terra, poi quello di smog. 

Le parole servono per capirsi, per capire la grandezza di soli tre giorni e di come cambiano la pelle e la testa.

Alcune delle persone che leggeranno queste parole hanno la fortuna di avere quel caffè tostato e macinato nella propria cucina italiana. 

Prendete tra le mani quel pacchetto e immaginate l’universo in cui sono cresciuti quei semi, in cui sono spuntati quei frutti, quali mani li hanno raccolti, quali lo hanno sigillato. Pensate al sorriso di chi ce l’ha passato orgogliosamente in mano e poi pensate alle nostre mani quando l’hanno messo in una valigia che è volata su un aereo che è atterrato vicino alla cucina in cui preparate il caffè. 

Pensate alla forza di quel pacchetto, agli spiriti buoni che hanno soffiato sulle foglie, perché crescessero verdi, resistenti, legali, libere dai veleni. 

“Tay”, il Sole, secondo la cosmo-visione Nasa, insieme alla Luna, è il primo nonno del mondo. Insieme avrebbero avrebbero portato il Pees Kupx “il regalo che fiorisce”, un seme, da cui sarebbe nato il mondo. Il mondo continua e si evolve in forma di spirale, fino a noi, che facciamo parte di questa terra, in questo momento. 

Quel “Tay”, che ci ha arrossito le guance, quella “Uma” che ci ha illuminato la notte, sono ora parte di ciò che siamo e che vogliamo raccontare, anche nella loro difficoltà. Toribio è uno dei comuni colombiani più emblematici e colpiti dal conflitto armato. 

E’ difficile cancellare dalla memoria dei suoi abitanti l’attacco alla scuola di polizia con un bus-bomba, alle 10 di mattina di un giorno di mercato. Sono difficili da dimenticare i morti, gli scomparsi, gli scioperi, i blocchi stradali, contro dei governi ciechi, sordi, assenti. Un territorio che fa gola, un territorio schiacciato dal fuoco di fucili, un territorio che non merita nulla di tutto ciò. 

Quello stesso seme di vita dell’inizio del mondo è presente nei cuori Nasa, è presente nelle guardie indigene, che difendono il proprio popolo con un bastone segno del rispetto che gli si deve provare, è presente nella visione di un territorio libero dalla guerra, è presente nella crema di coca e di marijuana, che si vendono come medicine e non come merce sporca. E’ presente in chi appoggia da vicino e da lontano la loro lotta. 

Noi, portandovi la storia di questo caffè e di questo popolo, speriamo nel nostro minuscolo di appoggiare questi giganti, figli delle acque, delle Ande e della Colombia.

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