Ogni curva ha la sua raccomandazione e la sua paura. “Non guardate nessuno in faccia, non fermiamoci, andiamo dritte dove dobbiamo andare ok?”.
Intorno dei boschi mozziafiato, dei ruscelli che scendono sulla strada polverosa, delle pietre grandi, probabilmente lanciate lì dal vicino vulcano, cinguettio di uccelli, case sparse dove non te lo aspetti.
Non riesco a relazionare quello che vedo con la guerra. Prima, quando ci pensavo, pensavo alle bombe, al fuoco, a palazzi che crollano, a gente che scappa, che urla, che piange. C’è solo silenzio, c’è solo tensione, c’è solo natura, ci sono le Ande, che nascondono segreti, che nascondono dolore.
Siamo a meno di due ore da Pasto, il capoluogo della regione del Nariño, sembriamo molto più lontane, è difficile pensare di essere nella stessa Colombia. Qui a farla da padrone sono le coltivazioni di papavero da oppio e il mercato illecito che ci gira intorno.
Noi vogliamo conoscere chi ha fatto scelte diverse, chi ha deciso di seminare pace seminando caffè, chi ha deciso di fare più fatica, di guadagnare meno ma di vivere senza il peso dell’illegalità.
Per questo ci siamo rivolte alla “Cooperativa Caficultora por la Paz Sureña”, nel nome le intenzioni, le speranze.
In macchina con C., la nostra guida locale, facciamo il punto sulla situazione del territorio, ci racconta del terrore che lì si è provato. Ci trasmette un’agitazione palpabile, che ci vede lanciarci sguardi preoccupati nella macchina che guidiamo tra la polvere.
Arriviamo e tutto scompare. Tutto si scioglie con il sorriso di chi ci stava aspettando per mostrarci orgoglioso il suo caffè. Un ragazzo sulla trentina ci prepara un succo di papaya, scambiamo due battute e carichiamo i cavalletti sulle spalle, ci prepariamo per scendere su dei sentieri fatti di galline che scappano, bambini ridacchianti e tanto, tantissimo verde.
Dietro a un curva fatta di terra e manioca, spuntano dei giganteschi teli, tutto il raccolto si sta essiccando al sole caldo e rassicurante del pomeriggio. “Qui produciamo il caffè honey, un caffè dolce ed ecologico”.
Mentre guardiamo affascinate l’innumerevole quantità di chicchi abbronzati, continuiamo con le interviste “E’ ecologico perchè è un caffè che non si lava, si lascia il succo della cigliegia che lo avvolge e assume un gusto molto più dolce del normale. Si risparmia una quantità di acqua immensa ma è molto più difficile da lavorare”.
Assaggiamo un chicco, è miele effettivamente, sembra un biscotto. Ed è miele quello che ci scorre nelle vene, mentre sentiamo parlare le persone che ci stanno accompagnando “Vi invitiamo a provare questo caffè del Nariño, prodotto da mani lavoratrici e contadine”.
Invitiamo anche le bambine che ci guardano incuriosite a partecipare “Un saluto a tutti quelli dell’Italia” ci dicono ridendo nella macchina fotografica. Mentre risaliamo la montagna andina che ha ospitato buona parte delle interviste ci guardiamo felici, abbiamo imparato in un solo pomeriggio moltissime cose, sul caffè, sulla pace, sulla guerra.
Scattiamo le fotografie di rito e ci rimettiamo in macchina, il sole si sta spingendo verso il basso, puntuale come ogni giorno alle 18 e 30. La strada sembra un’altra, ridiamo e scherziamo con C., che si è rilassata e fa rilassare anche noi.
A un certo punto il succo di papaya e il caffè fanno sentire il loro effette diuretico, dobbiamo andare in bagno. “Conosco la signora che vive qui, fa parte della Cooperativa”. Senza farcelo ripetere due volte fermiamo la macchina e corriamo dentro la casa. Mentre noi siamo impegnate a commentare la giornata, C. compra una gallina nel pollaio della signora, la mette viva in un sacco e la carichiamo in macchina. “Bè già venite a casa mia, mangiamo bene!”.
C. spela la gallina nel patio e la cucina mentre noi scarichiamo sul computer i risultati di una giornata che difficilmente dimenticheremo. G. il suo compagno è al piano di sopra, c’è un rumore forte che lo accompagna nel buio.
Incuriosite, saliamo su a spiare quel lavoro notturno. Appoggiata dentro un sacco di yuta pieno di segatura, una piccola lampadina illumina la stanza. Sta togliendo gli ultimi residui di buccia dal caffè secco con una macchina che ha costruito lui stesso.
E’ lei a fare quel rumore speciale. Il giorno dopo il caffè sarà portato a tostare e a macinare e scapperà nelle tazze di qualcuno che forse non ha idea di quella bellezza che lo ha prodotto, come non ce l’avevamo noi prima di assistere a questa e tante altre scene del genere.
A tavola, tutti e quattro ridiamo e sgranocchiamo quella succolenta gallina che per un attimo è stata nostra compagna di viaggio. Fa fresco, ci infiliamo sotto le coperte di C. e G. che ci cedono il letto, dormiamo sotto il crocifisso e una foto di loro felici, siamo felici anche noi.
Che fortuna essere li. Che fortuna per gli occhi, quando si riempono di tutto questo.