“Attenta! Ci sono delle mucche!”, freno. I bovini sembrano muoversi al ritmo della salsa che stiamo ascoltando in macchina, ridiamo a lungo dopo aver fatto un video con il cellulare che immortala il momento.
E’ all’ordine del giorno incontrare animali per le strade colombiane, normalmente spuntano da dietro le curve e bisogna armarsi di pazienza mentre i padroni cercano di farli camminare in fila indiana. Ce n’è sempre uno che scappa, normalmente è quello che mi sta più simpatico.
Stiamo passando dalla regione del Nariño a quella del Cauca, attraversiamo Ande verdi, spianate caldissime, pueblitos popolatissimi, di indigeni, di afrocolombiani, di meticci, di tutto.
Andiamo a Piendamò, un municipio rurale della regione, dove Norberto e la sua famiglia coltivano caffè biologico. Sappiamo che saranno due giorni intensi e piacevoli, dopo aver parlato con lui al telefono, ha una voce allegra, premurosa, squillante e coinvolgente.
“Mia moglie vi aspetta all’altezza di un cartello con su scritto Vereda El Mango”, facile a dirsi, meno a trovarsi. Facciamo le trottole per la strada e ci imbattiamo anche in dei carri armati, a cui non farò mai l’abitudine.
Poi eccola, salta sulla macchina e ci racconta dove siamo, come è composta la sua famiglia, cos’è che la preoccupa, in 20 minuti sappiamo un sacco di cose, è già un’amica. Due braccia spalancate ci aspettano fuori dalla casetta che raggiungiamo dopo una salita di pietre e buchi, in cui devo dimostrare di sapermela cavare al volante.
Norberto ci racconta sotto un tetto di lamina e una pioggia scrosciante buona parte della sua vita, passano tre ore come fossero minuti, nel frattempo arrivano sul tavolo zuppe, caffè, bambini che si appendono ai colli, quaderni con appunti, succhi di frutta fresca.
Piove fuori e piovono frasi di una forza tale che prendo la penna e le scrivo. “Amo la terra, è l’unica cosa che possiedo”, “Possiamo cambiare le cose! Quando usavo i pesticidi a un certo punto mi sono chiesto che cosa stavo lasciando ai miei figli e mi sono detto: da domani racconterò un’altra storia”, “Ho piantato un intero bosco, dove prima c’erano solo erbacce”, “Ora i nostri prodotti hanno non solo un sapore naturale ma anche culturale”
Il vento ci fa il regalo di spazzare via le nuvole e lasciare spazio al sole, siamo pronte a racchiudere queste parole in un video, a catturare più immagini possibili di questa bellezza naturale creata da una famiglia allegra, decisa.
Siamo in dieci a scendere giù per i sentieri di canna da zucchero e arriviamo a mettere le gambe in mezzo ai cespugli che crescono a lato degli alberi di caffè, “Vedete quest’erba? Siamo abituati a vedere ordine nelle coltivazioni, la natura non è ordinata, la natura è efficiente. Se lasciamo crescere queste piante spontaneamente, proteggeranno le radici del caffè e gli daranno nutrienti che altrimenti non avrebbeno”.
E si. Mi chiedo come facciamo a essere parte della natura e a pensare in modo così diverso da come farebbe lei.
Arriviamo nel bosco, immediatamente l’aria si fa fresca, un rumore di acqua accompagna i nostri passi tra alberi, fiori, canne, muschio. Senza questa famiglia non ci sarebbe questo bosco. E’ una sensazione strana quella toccare con le mani il risultato della coerenza. Tutto ciò che dice Norberto è rispecchiato nelle sue piante, nel suo caffè, nel suo orto.
Si fa sera, bisogna iniziare a risalire verso casa. Uova strapazzate e patatine fritte arrivano sul tavolo, mentre chiacchieriamo con tutti i figli curiosi per la presenza di due Monas (bianche) a casa. E’ presto ma il buio ha già avvolto tutta la campagna, meglio addormentarsi, il domani sarà ancora più intenso. Ci arrotoliamo nelle coperte della figlia più grande, partita per studiare legge.
Non c’è bisogno di nessuna sveglia, una musica fortissima invita a lasciare il letto e a scoprire che rave party si sta allestendo fuori. E’ musica cristiana, Norberto è un pastore, in più è la festa della mamma, stanno preparando la messa sotto la struttura costruita con le canne che la famiglia ha seminato anni prima.
Una cassa sparata a mille invita i vicini a partecipare, noi optiamo per fare le riprese che ci mancano, torniamo nel bosco, esploriamo il caffè sparso in più punti della tenuta, chiacchieriamo dietro alla telecamera, sudiamo portando su e giù cavalletti e macchine fotografiche.
Tornate in casa abbiamo l’onore di tagliare le torte comprate per la mamma, abbozziamo un discorso per ringraziare il fatto di essere li, di essere con loro. E pensiamo alle nostre di mamme, che tra un whatupp e l’altro seguono le nostre tappe, bravissime nel nascondere l’ansia di saperci tra le campagne di mezza Colombia.
Mangiamo due fette di torta, come delle ingenue. Sostituirà il pranzo no? Macché. Eccolo lì: zuppa, riso, patate. Vorremmo catapultarci sul prato e dormire sotto quegli alberi che hanno tante storie da raccontare.
Invece saliamo in macchina, andiamo a trovare un’altra famiglia a una decina di chilometri. E’ difficile non guardarci sconcertate quando arriva un piatto sul tavolo dove ci siamo appena seduti. E’ riso con latte, una delle poche cose che non mi piace della cucina colombiana, evvabbè, non si può rifiutare.
La signora che ce l’ha preparato ha una faccia da abbracci, iniziamo a chiacchierare del suo caffè, mente il marito ci osserva da sotto un sombrero di paglia, è timido ma si vede che è felice di averci lì. Arriva Nhora, la figlia trentacinquenne della coppia, che ci farà da guida per tutta la tenuta.
In mezzo al caffè hanno seminato peperoncino, piselli, tuberi vari, limoni, mandarini, fiori. Eccolo quel disordine naturale che da alla loro bevanda un sapore speciale. Li sotto la terra le radici si abbracciano e mescolano i profumi e le proprietà, regalando alla tazza qualcosa di magico.
Le pecore non stanno zitte un secondo e la pioggia torna a bagnare gli obiettivi e i cappucci che ci mettiamo in testa. Maciniamo il caffè della famiglia e li filmiamo mentre lo impacchettano. Quei granelli voleranno in Italia, sono orgogliosi mentre gli raccontiamo che lo daremo a chi ci ha aiutate con delle donazioni a essere li con loro.
Scivoliamo in macchina dopo degli abbracci sinceri, ci accingiamo a riceverne altri nella casa di Norberto che dobbiamo lasciare per proseguire il nostro viaggio.
“Che Dio vi benedica!”. Se lo dici tu Norberto, siamo sicure che lo farà. La notte ci accompagna sulla strada verso la prossima tappa, cantiamo un po’ mentre sorridiamo. Vale la pena la pancia ultra piena, il fango sotto le suole, la faccia rossa per il sole, le spalle stanche, vale la pena riempirsi di questa vita.