Un pappagallo scorrazza nel giardino della casa e ride, ride forte, fa ridere anche noi, che abbiamo appena iniziato il nostro viaggio-progetto “Yanayaku – Le radici del caffè”.
Siamo nel Municipio di San Josè di Alban, nel sud della Colombia, dove un centinaio di famiglie hanno costruito un sogno collettivo, quello di produrre caffè in modo naturale e venderlo, senza più accettare i prezzi stracciati che si impongono a New York.
Tutti insieme sono la “Cooperativa Caficultora por la Paz Sureña”, sono amici di vecchia data, parenti, mogli, mariti, figl*, ognuno con la propria coltivazione di caffè, tutti con un amore sterminato per le piante e i frutti che hanno fatto crescere, che vorrebbero vedere valorizzati, apprezzati.
Siamo qui per raccontarli, per riassumere processi di anni, dolore di anni, per questo “Paz Sureña”, per questo credono nel caffè, dopo aver vissuto la guerra da vicino.
Ci sediamo a tavola, per conoscerci prima di iniziare le riprese, un banchetto che potrebbe racchiudere colazione, pranzo e cena, ma “ai noi” è solo la prima. In un piatto, Doña Marta, padrona di casa e del pappagallo, racchiude il meglio della cucina regionale, una delizia per gli occhi e il palato.
Tra un boccone e l’altro rompiamo il ghiaccio, prepariamo le macchine fotografiche e i cavalletti per immortalare la bellezza che ci circonda. Un verde di mille colori, le Ande che ci guardano, come si guardano delle formichine, un caffè giallo, poi rosso, poi scuro, delle incertezze, dell’orgoglio.
E dentro alla macchina fotografica iniziano a scorrere fiumi di racconti, di parole che escono spinte da sorrisi che regaliamo per far sentire tutti a proprio agio. Non è facile spiegarsi, non è facile ricevere lo sguardo di un mezzo severo, ma per fortuna esistiamo noi, le persone, tra un obiettivo, un iso, uno zoom, un piano.
Finiamo le riprese e ci incamminiamo sulla montagna che ci divide dalla strada principale, impareremo con il tempo a sopportare il peso delle batterie, delle macchine fotografiche, dei cavalletti e delle agende sulle spalle, percorrendo sentieri che regalano agli occhi energia per caricare anche mattoni.
Passiamo ad altri scenari, ad altre storie. “Un caffè?”, “Certo!”, chi ce lo sta offrendo è la stessa persona che l’ha piantato e questo basta per assaporare fino all’ultima goccia il suo sapore di limoni, di vulcano, di tramonto, di bellezza.
“Mio padre mi ha insegnato a lavorare con il caffè, così ho seguito le sue orme, è un lavoro duro, e si concentra in pochi mesi, quando per raccoglierlo non basta la famiglia e bisogna assumere vicini e parenti”.
Ha una camicia bianca, come la nuvola che gli passa sulla testa, su quei cappelli pettinati, su quelle mani esperte, che toccano la terra e le foglie come un pianoforte, che creano una sinfonia con la natura, capace di esprimesi in una tazza calda, che stringiamo tra le mani.
Ci emozionano le parole che escono dalla bocca del nostro nuovo intervistato, che indica il vulcano che sta dietro alle nostre spalle, “Si chiama Doña Juana, si dice che sia arrivata a dorso di un cammello su queste montagne e dopo un’eruzione sia rimasta pietrificata per sempre sulla cima, con tutto il suo seguito”.
Il suo caffè sà di questo, non solo di caffè. Sa di quello che raccontano le mani che lo lavorano. E’ un’illuminazione, è quello che stavamo cercando. Non parlare di un prodotto, ma di chi lo produce. L’uomo, la terra, le piante, il vulcano, le nuvole, tutto sta insieme, tutto ha senso, tutto convive, senza danni, solo convive.
Mentre ascoltiamo Guillermo parlare, spunta un arcobaleno a farci un ennesimo regalo, si mette tra Doña Juana, una valle e noi. Una foto non basta, non racchiude quello che gli occhi sono capaci di vedere, quello che la natura è capace di esprimere, se ne riconosci l’anima.
E ci abbracciamo e ci salutiamo. Che l’arcobaleno lascia spazio alle stelle e una zuppa ci aspetta su un tavolo e delle coperte nel letto per raccogliere le emozioni in un sonno-sogno.
Quando spunterà il sole saremo già diverse, saremo già avvolte da un’atmosfera di pace, laddove la guerra ha ucciso innocenti, laddove seminare illegalità era più facile che seminare da mangiare, laddove l’aria sa di fresco e di caldo insieme, che non sai se è meglio coprirti o lasciarti accarezzare da quello che il vento ha voglia di portarti.
E veniamo accompagnate da Doña Esperanza, che apre la porta di casa sua con il sorriso più che con le mani, che passeggia per il suo caffè con il marito, sono una squadra, di quelle belle, di quelle abituate a vedere nella sconfitta un insegnamento.
“La casa che avevamo prima si è distrutta, abbiamo vissuto un pò qua, un pò la, adesso qui abbiamo messo le radici, le nostre e quelle del caffè”. Mentre spingiamo la telecamera in mezzo alle foglie Esperanza sorride di timidezza e racconta quello che può sul suo lavoro di tutti i giorni.
Il suo caffè ha un colore speciale, verde Esperanza. Che vediamo in frutto e in tazza. Siamo piene ma mangiamo, dobbiamo. Non si spegne un sorriso rifiutando cibo fatto con amore. Mai.
Ci guardiamo in macchina, prendendo la strada principale per raccontare altre storie, non smettiamo di sorridere, per la ricchezza umana, naturale, paesaggistica che abbiamo di fronte.
Può un video raccontare tutto questo? Possono delle parole? Può un caffè?
Tra un curva e l’altra respiriamo il verde, respiriamo l’aria, respiriamo l’asfalto che divide la città dalla campagna. Siamo in Colombia, siamo felici, è iniziato qualcosa che farà del nostro stomaco farfalle, della nostra testa un uragano, delle nostre dita dei gessi e delle telecamere delle lavagne.